giovedì 18 agosto 2011

Erano -introdursi, una notte, nella palestra dei proprio ricordi.

Erano….
Erano solo i ricordi. Erano solo i ricordi di un posto vuoto.
Era vita.
Era vita abbandonata.
Buttata, accumulata e abbandonata.
Cancellata. Con un’anima.
Erano delle fotografie in una palestra, erano fotografie di amiche tue, non più tue.
Era una lezione di educazione fisica con troppe persone.
Era una lezione a cui non potevi partecipare, stavi male.
Era una lezione durante la quale gli altri correvano, tu ascoltavi le prime storie di sesso di chi già non era più vergine da un pezzo.
Era la luce.
Era il soffitto altissimo.
Il suono dei palloni che si moltiplicava. Che si moltiplicavano. Battendo, rimbalzando, cascando.
Era la luce.
Erano i colori del giorno che si infiltravano dalle finestre.
Erano le porte-finestre.
Era il caldo e il quadrato di sole che illuminava il pavimento quando l’estate la porta si lasciava aperta.
Era quel filo d’aria atteso, che non arrivava mai.
Erano gli amici.
Erano i tuoi amici.
Erano compagni.
Quelli che ora, compagni non sono.
Erano ragazzini.
Infanzia, adolescenza. Odi, gelosie.
Erano fotografie di culi, chiappe, persone sorridenti.
Ragazzi con cui volevi, ma non potevi stare.
Erano palle prese male.
Erano giornate prese male.
Erano maniche corte
che non potevi portare
Erano polsi
che non potevi mostrare.
Era tutto scuro
Quando arrivava l’inverno
Quando a correre il caldo tornava
E qualcuno un’occhiata ti dava.
Tagli nelle braccia, tagli nelle vene.
Bruciavi corroso di pene.
Ma queste.
Finte.
Erano.
Erano
Finte malinconie
Di un pazzo
Che passò le sue giornate
Rodendosi
Mentre il mondo
In realtà
Lo rallegrava.
E così.
E così questa notte.
Dopo sette anni.
Ho rimesso piede lì. E ciò che ho visto
Era qualcosa che non ricordavo
Violavo uno spazio straniero.
Qualcuno, qualcosa non mi riconosceva.
E non erano i rumori della palestra, non era il buio della notte.
Non era la tenda che divideva lo stanzone in due, perché ormai c’erano troppe classi in quella scuola.
Non erano le gocce che cadevano dal soffitto. Che cadevano in frisbee appoggiati a terra, al contrario.
Non era la paura di essere scoperti
E il dispiacere di riuscire a entrare in piena notte in una palestra abbandonata.
Non era la notte,
il buio,
il sole e il falso fresco che non entravano dalla porta-finestra.
Ero io.
Erano i miei piedi, le mie suole.
Erano le mie echi, ero io a rimbombare.
Violavo i miei ricordi.
Ricordi che chiedevano di non essere toccati.
Amici che continuavano a fare ginnastica
In quella palestra abbandonata d’estate.
Erano ricordi che, chiassosi, mi tornavano alle orecchie
E che io non volevo sentire.
E che io non volevo ricordare.
Era la vita.
Ed era la vita.
Era la vita che era vita.
E che mi voleva ricordare di andare via
Perché lì,
ora,
non ce n’era più.




Margherita Tercon

martedì 16 agosto 2011

Sono così. E basta.

La cosa bella di avere un blog che nessuno legge.... è proprio che nessuno lo legge. Sono Margherita Tercon, ho 21 anni e non ho mai parlato veramente di me. Parlare di sè, che cosa sbagliata... Ma semplicemente perché vorrei sapere cosa significa parlare di sé. Insomma, io potrei dire tutto quello che voglio su di me e voi potreste benissimo leggere e credermi o pensare che io abbia scritto un mucchio di stronzate. Sempre che qualcuno abbia intenzione di leggere queste parole. Che tra l'altro non hanno nemmeno un senso, quindi un motivo in più per leggere meno. Fermarsi proprio.
Beh... boh. Non ho idea di cosa stessi dicendo. Che sto dicendo? Che si dice? Che si dice di solito su un blog? Non quello che ho scritto finora, altrimenti qualcuno l'avrebbe letto. Di cosa si parla? Dei problemi? Di stitichezza? Di che si parla? Il bello è che penso che potrei scrivere dei segreti pazzeschi e tremendi su di me e non lo verrebbe a sapere nessuno! Poi però, se stai antipatica all'amico del tuo ragazzo, la più piccola stronzata diventa un crimine. Ma che sto dicendo.
Beh beh beh.
Io odio Facebook. Credo sia una cosa comune a chi vive su FB. A chi ci vive, sì. Perché chi ci passa poco tempo non lo troverà così disturbante. Sempre che esista questa parola.
Beh, odio FB. Lo odio, ma non posso cancellarlo, perché mi serve.
Ho sempre amato internet.
Da quando ero piccola. Quanti anni avrò avuto, 7, 8, 9...? Boh. Da quando ho internet.
Perché? Perché tutti a scuola mi prendevano in giro. Perché ero grassa, perché non ero del gruppo, perché ero brutta... E che ci potevo fare? Non potevo starmene da sola. Non VOLEVO. Avevo un'amica, ma lei era bella. Lei è bella. Lo è ancora. Sia bella che mia amica. Beh, lei non aveva i miei problemi. Chiamiamoli problemi....
E così...la chat, internet, wow! Una scoperta incredibile! Cioè, io potevo parlare con le persone! Potevo parlarci, ma soprattutto, loro volevano parlare con me! Senza che nessuno si intromettesse, senza che nesuno mi giudicasse per il mio aspetto, per quelle cose lì... Ancora le macchine fotografiche digitali dovevano avere successo, non era così comune una propria foto su internet. Ci voleva quel lentissimo scanner, quella lentissima memorizzazione e blablabla....
Internet. Sempre stata dipendente.
Prima le persone mi parlavano, poi si interessavano al mio aspetto. SE succedeva. Ancora mandavo gli annunci ai giornalini, per gli amici di penna. Anche a quelli non interessava. Ai bambini. Dodicenni con voglia di comunicare, non con voglia di trombare. (Già sapevo tutto sul sesso, ma il mio scopo non era quello. Cioè, non era messo in pratica.)
Behbehbeh non so.... Sarà per questo che dalla chat, la seconda cosa che ho deciso di fare nella vita è stata scrivere.
Scrivere. Nessuno ti vede, ti può solo leggere. Attraverso le parole può leggere te. Vedere te. Non ha bisogno degli occhi, non ha bisogno delle mani, non ha bisogno di una soddisfazione visiva. Certo, un po' di ordine sulla pagina. E io scrivevo. E io scrivo. E nessuno ti vede. E ti si può odiare, ti si può amare. Puoi anche essere del tutto indifferente alla gente, ma... sei inattaccabile e sincero.

Sono stanca, non so che sto scrivendo, non so cosa voglio dire, non so. Non è un discorso articolato, non lo voleva essere, sono parole. Sono parole. Buttate qui. Così. A caso.
Chi sei? Cosa vuoi? Perché lo fai?
Non so, non so....
Continuo a scrivere, continuo a distrarmi, tra qua e FB, continuo.... Continuo a fare qualcosa, qualcosa forse di sbagliato. Continuo, ma non smetto. Non ho quasi più domande. Non ho risposte.
Ho solo paura.
La paura di mostrare ciò che sono. Chi sono. Perché purtroppo il mio lato peggiore è questo.
Quello della bambina che non crescerà mai.
Della bambina permalosa, che se la prende per tutto, che odia, ama, in modo incoerente, incostante. Inaffidabile bambina. Che non vuole crescere.
Lo scrivevo da piccola.
Lo scrivevo sui fogli, me lo scrivevo nella mente: non voglio crescere.
Non voglio perché non voglio smettere di vedere il mondo con uno sguardo diverso. Non voglio diventare adulta. Con un altro punto di vista. E credo di aver sbagliato.
Credo di aver sbagliato, perché questo mi ha portato a non far crescere la parte peggiore di me.
Il mio sguardo sul mondo è cambiato, ma il mio essere infantile no.
E mi sento in colpa con me, con gli altri.
E ora sto scrivendo qui. Cos'è? Un capriccio?
Cos'è?
Questo è infantile? Credo di riferirmi a questo. Essere depressi. Depressione. Che cos'è?
La provano tutti. E' solo un sentimento. Così, a caso. Cos'è? Cosa sono io?
E queste, queste domande mi fanno guardare da fuori e dire di me stessa che non sono altro che quella bambina ancora fissa alla chat, ancora impaurita da quei cattivi che mi tengono fuori dal gruppo. O che forse, cercano di farmi notare che dal gruppo mi sono tirata fuori io. O non ci sono mai voluta entrare.
Certe persone per capirle si devono guardare negli occhi. Ad altre devi domandare. Ad altre, non so. Ci sono molti modi. Ma non ne capirai mai nessuna.
A me non ci sono domande da fare.
Io ho scritto tutto qui.
Basta cercarmi.
Non bisogna capire un bel niente.
Basta leggere.
Alle cose non si vuole credere quando non c'è nulla da interpretare.
Io non sono da interpretare. Sono esplicita, sono capricciosa, sono piccola.
E lo dico. Non c'è da interpretare.
Sono così. E basta.

Ma conta qualcosa?