giovedì 1 dicembre 2011

Il Supermercato


Non so bene cosa dire sul supermercato. So che mi è sempre piaciuto andare al supermercato. 

Forse mi è sempre piaciuto perché quand’ero piccola ci andavo con la mamma. E forse perché era uno dei pochi momenti in cui potevo stare con la mamma. Forse mi veniva a prendere a scuola alle elementari e poi mi chiedeva se la accompagnavo a fare la spesa. E io ero felice. 

E io prendevo i sacchetti per aiutarla, ma non so se l’aiutassi veramente, contando quanto erano piccole le mie mani e quanto sono sempre state deboli le mie braccia. Ma la nonna lo diceva, aiuta a portare i sacchetti e farai bella figura. E io l’aiutavo a portare su le borse per le scale e lei mi diceva sempre “ma come sei forte” e io ero felice. A volte le portavo anche solo la borsa per farmi dire dalla nonna quanto ero forte. E anche lei all’uscita dalle elementari mi portava al bar a mangiare il winner taco. E io ero così grassa. Ma ero con la mia mamma e la mia nonna. 

E a volte la mamma non poteva venirmi a prendere a scuola e quando non veniva la Lalli, la baby-sitter che mi portava a casa e giocavamo agli animali mentre mi scappava la cacca, beh, quando non veniva lei, veniva la nonna. E prima di andare a casa della nonna andavamo sulla Cinquecento a un minimarket sulla spiaggia. E c’erano alberi e strada e carrelli fuori dal market. E la nonna parcheggiava la Cinquecento e noi entravamo. Non mi piaceva molto, era un po’ oscuro. Non so se c’è ancora. Ma le cassiere salutavano la nonna. E la nonna le salutava e si conoscevano tutti. E poi mangiavo dalla nonna. 

Ma la nonna ha perso la memoria e non mi veniva più a prendere a scuola, non guidava più, faceva piatti sempre più semplici e poi, quando dopo le lezioni alle superiori andavo io, sapevo già che non avrei trovato niente perché lei si dimenticava di fare la spesa. 

E doveva scrivere il bigliettino che venivo io e io venivo ma in frigo non c’era niente. 

Allora un giorno era venuta anche Iris, ma non c’era niente e lei si era arrabbiata. Non c’era niente anche se avevano aperto un supermarket vicino a casa della nonna e non c’era più bisogno di prendere la macchina. Allora la sera ero io a portarle un panino e a volte a pranzo si ricordava di mangiare un tramezzino, nient’altro, ma non sapeva se l’aveva mangiato o no e le cose andavano a male in frigo. 

Allora poi la spesa è andata a farla la badante. È lei che fa la spesa. Ma lei compra le cose che costano meno, le più scadenti. E io non mangio più dalla nonna. Io sono a Milano. 

Ma ci mangia il nonno. Al nonno ancora un po’ lo riconosce. Di me non sa niente. Mi da del lei. E il nonno mangia dalla nonna anche se sono separati perché le vuole tanto bene e perché la badante prepara il pranzo a tutti e due. 

E la sera se ne va via di nascosto, altrimenti la nonna è triste. Invece se lui esce di casa alle sue spalle lei si dimentica e non ricorda che lui le ha fatto compagnia tutto il pomeriggio. Ma la badante non sa fare da mangiare bene ma a volte ci fa delle sorprese perché va a prendere il cibo dai pullman che vengono dal suo paese nel parcheggio dove si vedono sempre tutte le badanti e comprano le loro cose in nero e danno comunicazioni ai familiari. E quindi la nonna mangia quelle cose lì. E la nonna ha sempre amato la cucina della sua terra. Ma ora non capisce più cosa mangia e non sa più qual è la sua terra. 

Questo è quello che ho da dire sul supermercato.


Margherita Tercon

mercoledì 30 novembre 2011

Non.

Non lasciare che un gioco diventi passione, se non puoi permettertelo.






Margherita Tercon

mercoledì 16 novembre 2011

Colline come Elefanti Bianchi - E. Hemingway

Colline come Elefanti Bianchi
Racconto di Ernest Hemingway

Trasposizione Teatrale – senza alcuna modifica
by Margherita Tercon

(J è Jig, U è l'uomo americano, C è la cameriera. Le frasi interrotte da un altro personaggio hanno il simbolo / )

Jig - una ragazza, e un uomo americano si siedono al tavolino fuori da un bar. Il bar è della stazione e si trova tra due binari. L’interno e l’esterno del bar sono separati da una tenda di bambù. In lontananza, colline.
J              (Togliendosi il cappello e mettendolo sul tavolo) Cosa prendiamo?
U            Fa piuttosto caldo, beviamo una birra. (Rivolto verso la tenda di bambù) Dos cervezas.
La cameriera si affaccia alla soglia.
C             Grandi?
U            Sì. Due grandi.
La cameriera scompare dietro la tenda per poi tornare al tavolo con due bicchieri di birra e due sottocoppe di feltro. Appoggia le sottocoppe e i bicchieri sul tavolo, guarda l’uomo e la ragazza. Entra nel bar.
Jig guarda le colline.
J              (Guardando le colline.) Sembrano elefanti bianchi.
U            (Bevendo un sorso di birra.) Non ne ho mai visto uno.
J              No, non potresti averlo fatto.
U            Potrei, sì.
J              Il semplice fatto che tu lo dica non prova nulla. (Riferendosi alla tenda di bambù.) Ci hanno dipinto qualcosa sopra. (All’uomo.) Cosa dice?
U            Anis del Toro. È una bibita.
J              Perché non l’assaggiamo?
U            (Rivolto verso la tenda.) Senta!
La cameriera si affaccia alla tenda.
C             Quattro reales.
U            Vogliamo due Anis del Toro.
C             Con acqua?
U            (A Jig.) Lo vuoi con l’acqua?
J              Non so. È buono con l’acqua?
U            Buonissimo.
C             Li volete con l’acqua?
U            Sì, con l’acqua.
La cameriera entra nel bar.
J              (Dopo aver bevuto un sorso, appoggia il bicchiere sul tavolo.) Sa di liquirizia.
U            È così per tutto.
J              Sì. (Pausa.) Tutto sa di liquirizia. Tutte le cose, in particolare, che si sono aspettate tanto. Come l’assenzio.
U            Oh, smettila.
J              Hai cominciato tu. Io mi divertivo. Me la spassavo.
U            Be’, cerchiamo di spassarcela.
J              Ci stavo provando. Dicevo che i monti sembravano elefanti bianchi. Non è stata un’osservazione intelligente?
U            È stata un’osservazione intelligente.
J              Volevo assaggiare questa nuova bibita. È tutto quello che facciamo, no? Guardare cose e assaggiare nuove bibite.
U            Credo di sì.
Pausa.
J              (Guardando le colline.) Sono belle. Veramente non sembrano elefanti bianchi. Alludevo solo al colore della pelle tra gli alberi.
U            Un altro bicchiere?
J              D’accordo.
Pausa.
U            La birra è bella fresca.
J              (Dopo aver bevuto un sorso.) Deliziosa.
U            È davvero un’operazione semplicissima, Jig. Veramente non la si può neanche chiamare un’operazione.
Silenzio. Jig ha lo sguardo basso.
U            So che non ci faresti neanche caso, Jig. È una cosa da nulla, veramente. Serve solo a far passare l’aria.
Pausa.
U            Verrò con te e starò sempre con te. Fanno solo entrare l’aria e poi è tutto perfettamente naturale.
J              E cosa faremo, dopo?
U            Staremo benissimo, dopo. Come stavamo prima.
J              Cosa te lo fa credere?
U            È l’unica cosa che ci preoccupa. È l’unica cosa che ci ha reso infelici.
Jig si gira verso la tenda di bambù e stringe due filze di tubetti.
J              E dopo tu pensi che staremo bene e saremo felici?
U            Lo so. Non devi avere paura. Conosco un sacco di gente che l’ha fatto.
J              Anch’io. E dopo erano tutte così felici!
U            Be’, se non vuoi, nessuno ti obbliga. Non vorrei che lo facessi, se non vuoi. Ma so che è semplicissimo.
J              E tu lo vuoi davvero?
U            Credo che sia la cosa migliore. Ma non voglio che tu lo faccia, se davvero non vuoi.
J              E se lo faccio tu sarai felice e le cose torneranno come prima e tu mi vorrai bene?
U            Ti voglio bene anche adesso. Lo sai che ti voglio bene.
J              Lo so. Ma se lo faccio, poi sarà di nuovo bello se dico che le cose sono come elefanti bianchi, e ti farà piacere?
U            Mi farà molto piacere. Anche adesso mi fa piacere, ma non riesco a pensarci, tutto qui. Sai come divento quando sono preoccupato.
J              Se lo faccio non sarai più preoccupato?
U            Non sarò preoccupato perché questa è una cosa semplicissima.
J              Allora lo farò. Perché di me non m’importa nulla.
U            Come sarebbe?
J              Di  me non m’importa nulla.
U            Be’, importa a me.
J              Oh, sì. Ma a me no. E lo farò e poi tutto andrà bene.
Jig si alza e cammina lungo i binari, fino in fondo alla stazione. Guarda il panorama.
J              E potremmo avere tutto questo. E potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo più impossibile.
U            Che hai detto?
J              Ho detto che potremmo avere tutto.
U            Possiamo avere tutto.
J              No che non possiamo.
U            Possiamo avere il mondo intero.
J              No che non possiamo.
U            Possiamo andare dappertutto.
J              No che non possiamo. Non è più nostro.
U            È nostro.
J              No, non lo è. E quando te l’hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più.
U            Ma non ce l’hanno portato via.
J              Aspettiamo e vedremo.
U            Vieni all’ombra. Non devi sentirti così.
J              Non mi sento in nessun modo. So come stanno le cose, tutto qui.
U            Non voglio che tu faccia nulla che tu non voglia fare/
J              E che non mi faccia bene. Lo so. Non potremmo ordinare un’altra birra?
U            Certo, ma tu devi capire/
J              Capisco. Non potremmo stare zitti per un po’?
Jig torna a sedersi al tavolo. I due guardano il paesaggio. Ogni tanto l’uomo guarda Jig.
U            Devi capire che non voglio che tu lo faccia, se non vuoi. Sono prontissimo ad andare fino in fondo, se per te significa qualcosa.
J              E per te significa qualcosa? Ce la potremmo cavare.
U            Certo che significa qualcosa. Ma io voglio solo te. Non voglio nessun altro. E so che è una cosa semplicissima.
J              Sì, tu sai che è semplicissima.
U            Hai ragione di parlare così, ma lo so.
J              Adesso faresti qualcosa per me?
U            Per te farei qualunque cosa.
J              Vorresti per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere per piacere smettere di parlare?
L’uomo guarda le valige contro il muro della stazione.
U            Ma io non voglio che tu lo faccia, non me ne importa niente.
J              Adesso grido.
La cameriera entra con le due birre in mano. Le appoggia sul tavolo.
C             Il treno arriva fra cinque minuti.
J              Cos’ha detto?
C             Che il treno arriva fra cinque minuti.
Jig sorride alla cameriera, che rientra nel bar.
U            Sarà meglio che io porti le valigie dall’altra parte della stazione.
J              (Sorridendogli.) D’accordo. Poi torna qui e finiamo la birra.
L’uomo prende due valigie e le porta dall’altro lato della stazione. Scruta in fondo ai binari, ma non vede arrivare nessun treno. Prima di tornare al tavolo attraversa il bar, guarda gli altri passeggeri e si beve un Anis al bar. Esce.
Jig gli sorride.
U            Ti senti meglio?
J              Mi sento bene. Non ho niente. Mi sento bene.

martedì 15 novembre 2011

Cinque

Cinque secondi per amarti
Cinque secondi per svegliarmi
Cinque secondi per dimenticarti.


I sogni sono così.

domenica 13 novembre 2011

Nessuno

Ti ho salutato,
mi hai dato le spalle.
Non credevo di essere diventata così tanto nessuno.




Margherita Tercon

martedì 8 novembre 2011

Indelebile

Non ti odio perché ti sei fatto un tatuaggio.
Ti odio perché lo hai fatto senza di me.
E come quello non ti andrà più via,
non ti andrà più via neanche la persona che ti stava accanto mentre lo facevi.

Margherita Tercon

sabato 8 ottobre 2011

ERROR#1

Monologo. Chi non lo fa con se stesso?


ERROR#1 

Bene. Come dire… bene.
Da dove voglio partire?
Da dove sono ora.
Dove voglio arrivare?
Vorrei saperlo.
Se la vita si potesse scrivere come un testo teatrale fatto bene, non sarebbe troppo difficile. Te la studi prima, sai già quali sono gli imprevisti che capitano, pianifichi il modo per superarli e scegli la tua conclusione. Ovviamente, mixando con un po’ di cinema, scriveresti anche “The End”.
Riproviamoci.
Da dove voglio partire?
Da qui. O forse dall’inizio.
Dove voglio arrivare?
Vorrei saperlo.
Non ho sbirciato le risposte di prima, sono venute naturali. Il che significa che non ci ho riflettuto abbastanza. Oppure ci ho riflettuto troppo e, dopo un gran giro, sono tornata al punto di partenza. Che però, a questo punto, è una conclusione.
Cambiamo metodologia. Potrei provare a costruire il mio personaggio. Allora…. Margherita Tercon. Margherita Tercon… potrei cambiare il mio nome in qualcosa di comico. No, no. Potrei cambiare il mio cognome in una delle tante storpiature che mi sono state date. No. Potrei smetterla di prenderla così alla larga. Come dice Clément in un libro di Pennac: “Sono vent’anni che la prendo alla larga.” E allora arriviamo al punto.
Il punto sei tu.
Ah, non te l’aspettavi. Non te l’aspettavi, eh? Ora sono stata diretta.
Questo è il genere di cose che amo. Lanci una cosa, la scrivi, ma poi non la fai leggere alla persona interessata. L’ho fatto un sacco di volte. In realtà non si risolvere niente, ma almeno sono in pace. Ho parlato. Questa è la verità.
Beh, il problema sei tu. Sei tu coi tuoi capelli. Sei tu con i tuoi cazzo di capelli, cazzo! Sono lunghi. E morbidi. Anche se non li hai pettinati. E tu dici di non averli pettinati, ma io potrei non crederti. Ma io ti credo lo stesso. Anche se non ti conosco.

Due spazi. Due spazi significano che mi è balenato alla mente un ricordo.
Sei tu. Sei fatto per restare nella memoria.

Ho quindici anni. È inverno, li ho compiuti da poco. Sto scrivendo qualcosa che mi piacerebbe diventasse un romanzo. Non è andata così, ma qualcosa è rimasto uguale. Ero in camera mia, a Rimini, al buio. Avevo la serranda abbassata, lo schermo del computer nero nella stanza nera. Il telefono staccato, niente, nessuno nel mio mondo. Nessuno nel mio mondo tranne i personaggi che iniziavano a vivere nelle mie parole. E lei, la ragazza. Lei, come me. E lui, il ragazzo. Quello che arrivava nell’apocalisse, quello che arrivava nel caos, quello che le metteva d’improvviso una mano sulla bocca per non farla urlare, per non far sentire il suo grido di spavento ad orecchie che dovevano restare sorde. Si avvicinava, le sussurrava poche parole nell’orecchio, così vicino… e lei, lentamente, lasciava scivolare via la paura dal suo corpo. E ascoltava. Ma lui era alle sue spalle. Lei non lo poteva vedere. Ma lui, liberandola e prendendola per il polso, la portava via, nel buio tra palazzoni alti. In silenzio. E poco prima di scomparire al sicuro nel buio, comparivano. E lui aveva gli stessi, lunghi capelli. E la stessa altezza, e le stesse mani che si era portato nel buio, al sicuro, con lei.
Non mi era mai tornato alla mente questo ricordo prima d’ora. Prima d’ora, che ho parlato dei tuoi capelli. E la storia era andata poco avanti, si era bloccata lì. Il racconto continuava con il mondo, ma non con loro due. I due sono rimasti lì, al buio, fino ad oggi, ad aspettare che finisse il caos della città per tornare alla luce. Ecco cos’è successo. Si sono soltanto affacciati più in là. Un po’ più in là. Se sei arrivato in fondo ad una stradina chiusa e lì non ci puoi più stare, devi percorrerla al contrario se vuoi trovare qualcosa di nuovo. Ma poi, la luce improvvisa ferisce le pupille strette. E troppo abituate al buio devono fare un passo indietro per abituarsi alla nuova vista, per non restarne accecate. Ecco cos’è successo.
Stare al sicuro ha i suoi pro, ma anche i suoi contro. Nascondersi ha i suoi pro e i suoi contro. Tacere, scomparire, mentire. Ignorarsi. Dimenticarsi. Ma poi ci si ricorda che tanto, da lì, non si può fuggire. Con il corpo sei ancora tra quei palazzi.
Sei tu. Sei fatto per restare nella memoria.
E io che pensavo di non averne, di memoria.


Margherita Tercon/Tecnor/Tercom/Percon/Percot

Colpevole. ovvero - la mia etichetta. POLITICA, cazzo!

Ci sono sempre dei pregiudizi. Dei preconcetti. Dei prequalcosa.
Delle premesse.
Delle… non mi viene la parola, ma sicuramente inizia con pre.
Beh, il mio pre è che sono nel torto. Ho sbagliato. Errore. GNEEEE. Alt. SbaglioSbaglioSbaglio! Allarme Rosso!
Direi basta così. Adesso… non è nemmeno qualcosa di così grave. Cioè, forse sì, dipende dalle aspettative di ciascuno nei riguardi di determinate cose.
Restare sul vago para il culo a me, ma rende poco comprensibile ciò che sto scrivendo.
Non me ne frega.
Già il fatto che io lo stia scrivendo a milioni, miliardi di persone è un’ammissione di colpa. E non provate a protestare contro il numero di persone che ho detto, perché ciò che scrivo è fruibile (va bene fruibile?) da miliardi di persone, che poi la leggano al massimo due persone è un’altra storia.
Ed è la mia fortuna. Perché io mi illudo di una cosa e poi… E poi basta.
Ma mi è ben venuta in mente un’idea, adesso.
Semplicemente non scrivere oltre. Non aggiungere informazioni riguardo quello che ho fatto e tutto quello che è successo e tutto quello che volevo dire e tutto… vaff.
Oh, no, odio dire le parolacce, soprattutto gratuite, ma questo mi para nuovamente il deretano. Ecco, ho detto deretano, ora direi che posso dire di dire di dirmi di dirvi che io sia o possa essere o possa e basta o sono una persona fine. Ho detto deretano, ma tanto vi siete già scordati di cosa stavo parlando.
Beh, ciao.
<3
M.T.

lunedì 19 settembre 2011

Bagno in Mare - Croazia

Una scaletta sospesa.

Una scaletta interrotta.

Persone volano
a metri

Metri da terra
Nel vuoto.

Anche i ciccioni.
Anche i ciccioni volano.

Sospesi.
Tra le bolle.




Margherita Tercon

domenica 18 settembre 2011

Milano

Città di claudicanti illusioni, sogni incespicanti.
Scompari tra la gente, scompari tra nessuno.


Margherita Tercon

giovedì 18 agosto 2011

Erano -introdursi, una notte, nella palestra dei proprio ricordi.

Erano….
Erano solo i ricordi. Erano solo i ricordi di un posto vuoto.
Era vita.
Era vita abbandonata.
Buttata, accumulata e abbandonata.
Cancellata. Con un’anima.
Erano delle fotografie in una palestra, erano fotografie di amiche tue, non più tue.
Era una lezione di educazione fisica con troppe persone.
Era una lezione a cui non potevi partecipare, stavi male.
Era una lezione durante la quale gli altri correvano, tu ascoltavi le prime storie di sesso di chi già non era più vergine da un pezzo.
Era la luce.
Era il soffitto altissimo.
Il suono dei palloni che si moltiplicava. Che si moltiplicavano. Battendo, rimbalzando, cascando.
Era la luce.
Erano i colori del giorno che si infiltravano dalle finestre.
Erano le porte-finestre.
Era il caldo e il quadrato di sole che illuminava il pavimento quando l’estate la porta si lasciava aperta.
Era quel filo d’aria atteso, che non arrivava mai.
Erano gli amici.
Erano i tuoi amici.
Erano compagni.
Quelli che ora, compagni non sono.
Erano ragazzini.
Infanzia, adolescenza. Odi, gelosie.
Erano fotografie di culi, chiappe, persone sorridenti.
Ragazzi con cui volevi, ma non potevi stare.
Erano palle prese male.
Erano giornate prese male.
Erano maniche corte
che non potevi portare
Erano polsi
che non potevi mostrare.
Era tutto scuro
Quando arrivava l’inverno
Quando a correre il caldo tornava
E qualcuno un’occhiata ti dava.
Tagli nelle braccia, tagli nelle vene.
Bruciavi corroso di pene.
Ma queste.
Finte.
Erano.
Erano
Finte malinconie
Di un pazzo
Che passò le sue giornate
Rodendosi
Mentre il mondo
In realtà
Lo rallegrava.
E così.
E così questa notte.
Dopo sette anni.
Ho rimesso piede lì. E ciò che ho visto
Era qualcosa che non ricordavo
Violavo uno spazio straniero.
Qualcuno, qualcosa non mi riconosceva.
E non erano i rumori della palestra, non era il buio della notte.
Non era la tenda che divideva lo stanzone in due, perché ormai c’erano troppe classi in quella scuola.
Non erano le gocce che cadevano dal soffitto. Che cadevano in frisbee appoggiati a terra, al contrario.
Non era la paura di essere scoperti
E il dispiacere di riuscire a entrare in piena notte in una palestra abbandonata.
Non era la notte,
il buio,
il sole e il falso fresco che non entravano dalla porta-finestra.
Ero io.
Erano i miei piedi, le mie suole.
Erano le mie echi, ero io a rimbombare.
Violavo i miei ricordi.
Ricordi che chiedevano di non essere toccati.
Amici che continuavano a fare ginnastica
In quella palestra abbandonata d’estate.
Erano ricordi che, chiassosi, mi tornavano alle orecchie
E che io non volevo sentire.
E che io non volevo ricordare.
Era la vita.
Ed era la vita.
Era la vita che era vita.
E che mi voleva ricordare di andare via
Perché lì,
ora,
non ce n’era più.




Margherita Tercon

martedì 16 agosto 2011

Sono così. E basta.

La cosa bella di avere un blog che nessuno legge.... è proprio che nessuno lo legge. Sono Margherita Tercon, ho 21 anni e non ho mai parlato veramente di me. Parlare di sè, che cosa sbagliata... Ma semplicemente perché vorrei sapere cosa significa parlare di sé. Insomma, io potrei dire tutto quello che voglio su di me e voi potreste benissimo leggere e credermi o pensare che io abbia scritto un mucchio di stronzate. Sempre che qualcuno abbia intenzione di leggere queste parole. Che tra l'altro non hanno nemmeno un senso, quindi un motivo in più per leggere meno. Fermarsi proprio.
Beh... boh. Non ho idea di cosa stessi dicendo. Che sto dicendo? Che si dice? Che si dice di solito su un blog? Non quello che ho scritto finora, altrimenti qualcuno l'avrebbe letto. Di cosa si parla? Dei problemi? Di stitichezza? Di che si parla? Il bello è che penso che potrei scrivere dei segreti pazzeschi e tremendi su di me e non lo verrebbe a sapere nessuno! Poi però, se stai antipatica all'amico del tuo ragazzo, la più piccola stronzata diventa un crimine. Ma che sto dicendo.
Beh beh beh.
Io odio Facebook. Credo sia una cosa comune a chi vive su FB. A chi ci vive, sì. Perché chi ci passa poco tempo non lo troverà così disturbante. Sempre che esista questa parola.
Beh, odio FB. Lo odio, ma non posso cancellarlo, perché mi serve.
Ho sempre amato internet.
Da quando ero piccola. Quanti anni avrò avuto, 7, 8, 9...? Boh. Da quando ho internet.
Perché? Perché tutti a scuola mi prendevano in giro. Perché ero grassa, perché non ero del gruppo, perché ero brutta... E che ci potevo fare? Non potevo starmene da sola. Non VOLEVO. Avevo un'amica, ma lei era bella. Lei è bella. Lo è ancora. Sia bella che mia amica. Beh, lei non aveva i miei problemi. Chiamiamoli problemi....
E così...la chat, internet, wow! Una scoperta incredibile! Cioè, io potevo parlare con le persone! Potevo parlarci, ma soprattutto, loro volevano parlare con me! Senza che nessuno si intromettesse, senza che nesuno mi giudicasse per il mio aspetto, per quelle cose lì... Ancora le macchine fotografiche digitali dovevano avere successo, non era così comune una propria foto su internet. Ci voleva quel lentissimo scanner, quella lentissima memorizzazione e blablabla....
Internet. Sempre stata dipendente.
Prima le persone mi parlavano, poi si interessavano al mio aspetto. SE succedeva. Ancora mandavo gli annunci ai giornalini, per gli amici di penna. Anche a quelli non interessava. Ai bambini. Dodicenni con voglia di comunicare, non con voglia di trombare. (Già sapevo tutto sul sesso, ma il mio scopo non era quello. Cioè, non era messo in pratica.)
Behbehbeh non so.... Sarà per questo che dalla chat, la seconda cosa che ho deciso di fare nella vita è stata scrivere.
Scrivere. Nessuno ti vede, ti può solo leggere. Attraverso le parole può leggere te. Vedere te. Non ha bisogno degli occhi, non ha bisogno delle mani, non ha bisogno di una soddisfazione visiva. Certo, un po' di ordine sulla pagina. E io scrivevo. E io scrivo. E nessuno ti vede. E ti si può odiare, ti si può amare. Puoi anche essere del tutto indifferente alla gente, ma... sei inattaccabile e sincero.

Sono stanca, non so che sto scrivendo, non so cosa voglio dire, non so. Non è un discorso articolato, non lo voleva essere, sono parole. Sono parole. Buttate qui. Così. A caso.
Chi sei? Cosa vuoi? Perché lo fai?
Non so, non so....
Continuo a scrivere, continuo a distrarmi, tra qua e FB, continuo.... Continuo a fare qualcosa, qualcosa forse di sbagliato. Continuo, ma non smetto. Non ho quasi più domande. Non ho risposte.
Ho solo paura.
La paura di mostrare ciò che sono. Chi sono. Perché purtroppo il mio lato peggiore è questo.
Quello della bambina che non crescerà mai.
Della bambina permalosa, che se la prende per tutto, che odia, ama, in modo incoerente, incostante. Inaffidabile bambina. Che non vuole crescere.
Lo scrivevo da piccola.
Lo scrivevo sui fogli, me lo scrivevo nella mente: non voglio crescere.
Non voglio perché non voglio smettere di vedere il mondo con uno sguardo diverso. Non voglio diventare adulta. Con un altro punto di vista. E credo di aver sbagliato.
Credo di aver sbagliato, perché questo mi ha portato a non far crescere la parte peggiore di me.
Il mio sguardo sul mondo è cambiato, ma il mio essere infantile no.
E mi sento in colpa con me, con gli altri.
E ora sto scrivendo qui. Cos'è? Un capriccio?
Cos'è?
Questo è infantile? Credo di riferirmi a questo. Essere depressi. Depressione. Che cos'è?
La provano tutti. E' solo un sentimento. Così, a caso. Cos'è? Cosa sono io?
E queste, queste domande mi fanno guardare da fuori e dire di me stessa che non sono altro che quella bambina ancora fissa alla chat, ancora impaurita da quei cattivi che mi tengono fuori dal gruppo. O che forse, cercano di farmi notare che dal gruppo mi sono tirata fuori io. O non ci sono mai voluta entrare.
Certe persone per capirle si devono guardare negli occhi. Ad altre devi domandare. Ad altre, non so. Ci sono molti modi. Ma non ne capirai mai nessuna.
A me non ci sono domande da fare.
Io ho scritto tutto qui.
Basta cercarmi.
Non bisogna capire un bel niente.
Basta leggere.
Alle cose non si vuole credere quando non c'è nulla da interpretare.
Io non sono da interpretare. Sono esplicita, sono capricciosa, sono piccola.
E lo dico. Non c'è da interpretare.
Sono così. E basta.

Ma conta qualcosa?